12 aprile 2020 - 12:00

Coronavirus, la quarantena in Lombardia diventa di 28 giorni: perché?

La Regione Lombardia ha annunciato la decisione di aumentare il periodo di quarantena obbligatorio per chi è positivo dagli attuali 14 giorni a 28 giorni. Ecco perché

di Redazione online

Coronavirus, la quarantena in Lombardia diventa di 28 giorni: perché?
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L’assessore al Welfare della Lombardia, Giulio Gallera, ha annunciato sabato 11 aprile una misura destinata ad avere un grande impatto per la ripartenza della Regione durante l’emergenza legata all’epidemia di coronavirus.

Durante la consueta conferenza stampa, Gallera ha detto: «Sta uscendo una linea guida che prevede che la quarantena duri fino al 3 maggio. Chi è a casa dal lavoro avrà un certificato dal medico di allungamento della quarantena fino al 3 maggio. I 14 giorni servono per vedere se compaiono i sintomi, ma molte persone poi sono ancora positive quindi a garanzia di tutti allunghiamo il periodo. L’idea, poi, è di fissarlo a 28 giorni in via definitiva».

La decisione è dunque duplice, e riguarda chi già è in quarantena perché positivo e chi lo diventerà a seguito di ulteriori controlli. Per i primi il tempo di attesa prima di tornare al lavoro sarà allungato fino al 3 maggio (una data chiave, visto che il giorno dopo, secondo le intenzioni del governo, avrà inizio la «fase 2»); per i secondi, i certificati che garantiranno l’assenza giustificata dal lavoro passeranno da due a 4 settimane.

Perché è stata decisa questa ulteriore stretta — di segno opposto a quanto avviene in un’altra Regione del Nord, il Veneto, anch’essa a guida leghista?

Le motivazioni riguardano uno dei temi più complessi del virus Sars-CoV-2: quanto tempo si resta «positivi» (e dunque contagiosi), e quando compaiono gli anticorpi in grado di garantire la possibilità di non ammalarsi di nuovo?

Sappiamo che — come ha spiegato al Corriere Pierangelo Clerici, presidente dell’Associazione Microbiologi Clinici Italiani e della Federazione Italiana Società Scientifiche di Laboratorio — «lo sviluppo di una risposta anticorpale richiede in genere dai 7 ai 10 giorni a partire dal momento dell’ infezione». Ma non abbiamo al momento test in grado di capire se gli anticorpi sviluppati sono sufficienti a «neutralizzare» il virus (o se — come avviene ad esempio per Hiv — gli anticorpi non sono capaci di impedire al virus di fare i suoi danni e quindi non forniscono immunità), e per quanto (per capirlo potremmo essere costretti a controllare «a cadenza fissa, per esempio ogni tre mesi, chi ha anticorpi protettivi»).

Le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità indicano che un soggetto positivo a Sars-Cov2, asintomatico o guarito dai sintomi, vada testato con tampone, per verificarne la «negativizzazione» non prima di 7 giorni; se risulta ancora positivo va testato di nuovo dopo altri 7 giorni.Una volta raggiunta la negatività il tampone va ripetuto a distanza di 24 ore: solo a qual punto il paziente può essere davvero dichiarato guarito. «La verità è che solo ed esclusivamente il tampone ci può dire se un soggetto si è negativizzato e quindi non più contagioso perché nel suo organismo non circola più il virus, e questo vale per tutti: malati e asintomatici» precisa il professor Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano. Pregliasco spiegava anche al Corriere che però «molte persone venute a contatto con soggetti positivi sono sì messe in quarantena, ma non viene più effettuato il tampone se non presentano sintomi. Dopo i 14 giorni di isolamento domiciliare (che è il periodo di incubazione del virus entro il quale in genere si manifestano i sintomi) non si sa né se queste persone abbiano contratto il virus restando asintomatiche né se sono ancora contagiose, anche se, va detto, è largamente riconosciuto che sono i pazienti con sintomi a essere di gran lunga più contagiosi con una carica virale maggiore. Del resto gli asintomatici sono meno “pericolosi” perché va da sé, non tossiscono e non starnutiscono».

Gallera ha spiegato che «molte persone sono ancora positive» dopo i 14 giorni stabiliti fino ad ora per la quarantena. È vero: lo confermava al Corriere pochi giorni fa Massimo Galli, direttore del dipartimento di scienze biomediche e cliniche dell’Ospedale «Sacco» di Milano, commentando il caso di Alessandro Politi, delle Iene, ancora positivo 30 giorni dopo il primo tampone positivo. «Non è un caso isolato», aveva detto, «ne ho riscontrati diversi anche personalmente. Dobbiamo iniziare a porci una quantità di interrogativi. Effettuare milioni di tamponi è impossibile ma bisogna trovare delle contromisure e delle soluzioni perché pazienti come Politi, completamente asintomatiche o poco sintomatiche ma pienamente positive dopo molti giorni, sono un problema. Adesso che dobbiamo iniziare a pensare a una ripartenza bisogna assolutamente evitare condizioni e situazioni che ci possano mettere nuovamente in grave crisi».

Una ricerca pubblicata poche settimane fa dal British Medical Journal ha rilevato che il 73% dei contagi avvengono quando il soggetto senza sintomi si trova nel periodo di incubazione, in particolare negli ultimi tre dei «famosi» 14 giorni. Un’altra ricerca molto interessante pubblicata pochi giorni fa sugli Annals of Internal Medicine ha stimato il periodo di incubazione in 5,1 giorni e il 97,5% di coloro che svilupperanno sintomi lo farà entro 11,5 dall’infezione (da 8,2 a 16,6 giorni). Queste stime implicano che, secondo ipotesi conservative, 101 casi su 10 mila svilupperanno sintomi dopo 14 giorni di monitoraggio attivo. Entrambe le ricerche rendono l’idea di quanto sia davvero importante la quarantena, e soprattutto, quanto sia decisivo per evitare nuovi contagi, portarla fino in fondo.

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